Beesness incontra la campionessa di pattinaggio sul ghiaccio che dal singolo si è appena reinventata un futuro, ricco di medaglie, in coppia con ad Ondřej Hotárek. Tenacia, duro lavoro, nuovi ritmi, empatia e capacità di dare fiducia al partner alla base dei traguardi raggiunti
Valentina Marchei, campionessa di pattinaggio artistico sul ghiaccio, un curriculum stratosferico alle spalle e in attesa di partecipare alla sua seconda Olimpiade, quella di Pyeongchang 2018 (Corea del Sud), dopo Sochi 2014. Utilizzare lo sport come elemento di paragone e confronto per il business, non solo è un’utile metafora per facilitare la comprensione di certe dinamiche di impresa, ma incredibilmente motivazionale. La storia di Valentina Machei poi è peculiare visto che nel 2014, Valentina è passata dal gareggiare nel singolo alla coppia, affiancandosi ad Ondřej Hotárek, altra figura storica del pattinaggio artistico italiano e internazionale. Una scelta per nulla scontata, nata quasi per caso. Una di quelle decisioni che, per chi è abituato a gareggiare a livelli così alti, sembra contro intuitiva e, di sicuro, non trova l’appoggio del pubblico per una serie di ragioni. La prima, il rischio di non ottenere risultati degni della carriera che si ha alle spalle. Entrambi, si sono rimessi in gioco quando la maggior parte degli atleti sceglie di dedicarsi ad altro. Nonostante questo, Valentina e Ondřej hanno dimostrato che si possono ottenere risultati straordinari se si lavora sodo a un progetto comune.
Cos’è cambiato nel passaggio da singolo a coppia? Quali sono stati i principali effetti sull’approccio al suo lavoro?
Prima, le responsabilità erano tutte nelle mie mani. Se fallivo, fallivo da sola. Se cadevo, mi rialzavo da sola. Quindi, ero abituata ad auto-motivarmi, a stringere i denti da sola. Improvvisamente, ho trovato Ondřej con il quale condivido gli stessi valori, la stessa voglia di fare. E in più è una fonte di motivazione ulteriore. Allo stesso tempo, gareggiare in coppia ha significato condividere le responsabilità, e non è stato facile per me essendo abituata, fino ad allora, a controllare tutto. Ho dovuto imparare il compromesso con me stessa. Molti pensano che in coppia si debba trovare il compromesso con l’altro, ma prima c’è quello interno. Sono diventata molto più paziente, ho imparato a lasciar andare parte delle responsabilità, a fidarmi ciecamente. Delegare le responsabilità richiede anche smettere di controllare, è questa la parte più difficile. Anche perché non puoi entrare nella sfera dell’altro, altrimenti non può fare quello che deve. Per fare un esempio, io soffro di vertigini. Con lui, ho zero paura. E lui, è a suo agio perché mi dice cosa deve fare e io mi limito ad eseguire. Mi guida, sa che mi fido. Se ci sono giornate in cui Ondřej è particolarmente stanco, è lui a dirmi che certi allenamenti è meglio non farli. Serve onestà intellettuale, visto che in certi esercizi rischio letteralmente la vita. Questo, per me, significa conoscere i propri limiti e rispettare chi lavora con te. Riconoscere quand’è il momento di fermarsi. E quelle volte in cui ho rischiato di cadere, si è sempre buttato sotto per proteggermi mostrando un estremo rispetto e premura.
Come avete affrontato l’infortunio alla mano capitato a Ondřej Hotárek, a pochi giorni dai Campionati Mondiali?
Abbiamo reagito cambiando il metodo di preparazione. Ci siamo concentrati sulle visualizzazioni, seguendo le indicazioni del nostro mental coach che ci affianca da tre anni. In base al ruolo che hai nel programma dell’esibizione, puoi adottare varie tecniche e modi per visualizzare. Ognuno lavora a modo suo, l’allenamento è fatto su misura. Ma nonostante questo, si lavora per un obiettivo comune. In questo modo siamo riusciti, con un grande risultato, a conquistare la nostra qualificazione per la Corea e a prenotare un altro posto per una seconda coppia italiana.
Essere in coppia ti ha fatto cambiare obiettivi di vita o di carriera?
All’inizio era più un’idea nata per le esibizioni. Lui aveva smesso di pattinare ed era assistente dalla mia allenatrice. Io volevo continuare nel singolo ed ero super motivata. Ma miglioravo molto velocemente. Per questo, ci siamo detti “proviamoci” contro tutto e tutti, specie i pronostici. Con questa scelta, siamo usciti dalla Nazionale, gli sponsor ci hanno un po’ lasciati a piedi. Anche gli allenatori avevano espresso i loro dubbi. Imparare una nuova disciplina dopo 20 anni che fai altro, non è facile. Tuttavia, siamo entrambi molto cocciuti. Sentivamo che poteva funzionare. Questo ci spingeva avanti. Pensare al futuro ci eccitava. Certo, ci è servita molta umiltà per ripartire da zero. Ma abbiamo centrato gli obiettivi: il prima il Campionato Italiano, poi le posizioni sempre più alte nelle gare internazionali. Sono gli obiettivi comuni che ci hanno tenuti uniti. Ognuno, poi, può farlo per ragioni diverse e in modi diversi, ma lo scopo deve essere lo stesso. Se gli obiettivi sono comuni, ognuno può andare per la sua strada in un progetto unico. Noi facciamo allenamenti diversi. Per noi, questi Mondiali sono stati l’insegnamento più prezioso nella nostra carriera sino a qui. Abbiamo imparato almeno che anche se succede qualcosa di brutto, in realtà tutto è ancora possibile e, soprattutto, che servono umiltà e coraggio per stravolgere completamente l’approccio che non funziona più, in modo da arrivare allo stesso obiettivo, come se non fosse successo nulla, per aggirare l’ostacolo.
Cosa farai dopo il quadriennio che vi siete dati?
Ora non riuscirei a fare l’allenatrice, ma sarebbe stupido non mettersi al servizio dei più giovani. Intanto, devo completare il mio percorso di laurea. Comunque, mi piacerebbe lavorare a livello organizzativo, manageriale. Portare in giro le realtà sportive, farle conoscere. Portare in giro la nostra esperienza, i nostri valori. Voglio che la nostra storia non sia solo ricordata per le medaglie; vorrei far passare il concetto che per essere degli atleti eccellenti non servono medaglie Olimpiche. Con la nostra esperienza, noi siamo diventati atleti completi. È proprio vero che il percorso ha in sé un significato che va oltre il risultato finale. Le nostre vittorie le abbiamo costruite sul percorso, giorno dopo giorno, e non durante la singola esibizione del campionato. Quando sei giovane, ti crei l’esperienza, ma a 20 anni non la sai usare come a 30, 35. L’hai ripetuta, rifatta più volte, quindi la maturità ti aiuta a farne un uso migliore.
Che rapporto hai con i social media?
I social sono un mezzo potente per traghettare messaggi e valori. Per questo noi atleti dobbiamo usarli per diffondere questi valori, per continuare ad alimentare il fuoco nei giovani e la loro voglia di mettersi in gioco, di iniziare nuove discipline sportive. Sta a noi dare l’esempio e spingerli sulla direzione giusta. Grazie ai social, possiamo raccontare alle persone come funziona il nostro mondo, cosa succede dietro le quinte. Molti, infatti, danno per scontato di non poterci arrivare, si demotivano. E invece è bene che vedano l’impegno e la motivazione che ci mettiamo ogni giorno, perché tutto dipende da questo, dal duro lavoro e dall’ambizione. Purtroppo, mi viene quasi da dire che alcuni giovani sono più abituati a inseguire gli influencer anziché i loro sogni. Pochi che hanno il coraggio di uscire fuori dal gruppo, perdendo di vista quello che vogliono fare davvero. Il nostro compito è quello di stimolare i sogni dei più giovani o di spingere quelli più grandicelli a fregarsene dell’età, perché non c’è scritto da nessuna parte quando bisogna iniziare e quando smettere, è tutto nella nostra testa.