The Blossom Avenue Partners, studio di urbanistica e di architettura specializzato nel design di complessi innovativi, sostenibili e di rigenerazione del territorio, detta le regole dell’evoluzione del magazzino logistico e progetta il nuovo hub logistico a Trecate (NO), tra i più grandi d’Italia.
Il founder e partner di TBA, Marco Facchinetti, ha seguito la prima fase dello sviluppo, con la realizzazione di due edifici (alti 13 metri circa sul piano di campagna) per un totale di oltre 160.000 mq. L’area totale è di circa 400.000 mq su cui si muoveranno oltre 1000 veicoli al giorno.
Costruire per la logistica, ossia inventarsi un progetto per una funzione ad alto impatto visivo e di larga estensione può essere uno stimolo importante per declinare due paradigmi su cui sempre l’architettura deve lavorare: l’innovazione e la leggerezza.
Grazie ad una prospettiva integrata e intelligente, tra i tanti aspetti che ne hanno permesso la realizzazione, Marco Facchinetti ha ribaltato il punto di vista sul progetto, con un personalissimo approccio architettonico: la composizione è nata articolando due sistemi di volumi, non soltanto gli edifici al centro dell’area ma anche i suoi contorni, considerati come un volume verde continuo, denso, fittamente alberato. Due volumi che hanno inteso dialogare con un paesaggio particolare, raramente ancora libero e ampio come sa essere la campagna piemontese, dagli orizzonti larghi e lunghi, lineari, limpidi e semplici anche con la nebbia.
Un sistema di linee orizzontali con le quali la composizione del progetto è entrata in dialogo: disegnando cosi due edifici che proprio nell’orizzontalità accentuata trovano la loro peculiarità, e che esaltano colorandosi di grigio scuro, solo appena alleggerito dai profili in acciaio che sottolineano il correre lungo orizzontale delle linee. Due masse scure che non hanno alcuna intenzione di nascondersi, spiccandosi libere dal piano dei piazzali e delle strade intorno a loro.
Il secondo volume è vegetazionale, ed è composto, questa volta con forza, dalla massa degli alberi che piantumano le dune, come un corollo che cinge la composizione ed ha l’importante funzione di compensare le risorse naturali sottratte comunque dallo sviluppo del sito, attivando scambi biotopici con l’ambiente intorno.
Le scatole si impongono come due volumi definiti, semplici e appartenenti al contesto. Ma in realtà la loro massa è solo apparentemente pesante: la lettura dei sistemi costruttivi ci parla di leggerezza.
Soltanto lo scheletro strutturale è tradizionale: travi e pilastri in cemento armato prefabbricato, per coprire con luci larghe uno spazio costruito così ampio. La pelle degli edifici è leggerissima e al contempo capace di garantire prestazioni nuove: un sistema di pannelli sandwich, composti da due pelli sottili, una esterna e una interna in alluminio, ma con al centro la vera anima del pannello, un pacchetto isolante che garantisce prestazioni energetiche rilevanti; una pelle composta a ‘domino’, retta da una semplice baraccatura in acciaio, componibile e scomponibile per l’apertura o la chiusura di porte e finestre, assicurando a questi grandi edifici il massimo della flessibilità di utilizzo.
L’appoggio a terra è altrettanto leggero. L’interazione con il sottosuolo si limita ai plinti di fondazione sotto i pilastri, che solo per circa un metro entrano in profondità. Nessun altro elemento disturba ciò che sta sotto gli edifici: come una calda coperta solo il pavimento industriale copre il suolo, chiedendogli di continuare a vivere al di sotto, senza interferenze né di sotto strutture né di impianti o tubazioni o scarichi. Le acque piovane che dal tetto vengono raccolte, scendono a vista con tubazioni interne all’edificio fino al suo piede, ed esternamente vengono raccolte e convogliate nelle vasche naturali di laminazione, create nelle aree verdi, e nel pieno rispetto dell’invarianza idraulica del sito.
La copertura è un suolo riprodotto in quota, un mondo pieno di innovazione e sostenibilità: la superficie maggiormente utilizzata è destinata ai pannelli fotovoltaici, disposti in misura ampiamente superiore alle necessità di legge per qualificare gli edifici al massimo livello (Platinum) delle certificazioni LEED. Le macchine per alimentare gli impianti interni sono ordinate lungo due fasce che corrono per l’intera lunghezza dell’edificio, lasciando uno spazio ancora una volta leggero, bianco, pulito su tutto il resto della copertura, il cui pacchetto costruttivo è, ancora una volta, leggero e composto da un sandwich di lamiera grecata, isolante, membrane isolanti e riflettenti. Il tutto, in pochi centimetri.
L’interno degli edifici racconta dell’innovazione che l’automazione dei processi di stoccaggio e movimentazione delle merci ha ormai raggiunto. Una giungla razionale ed ordinata di conveyors, nastri, aree di deposito di ogni forma e di ogni altezza, computer e robot, creano un ambiente di lavoro ad altissima specializzazione, in cui gli operatori si ritrovano a lavorare in condizioni di comfort ambientale garantito dall’estensione degli impianti di riscaldamento e raffrescamento, dalla cura della progettazione dell’illuminazione, dai sistemi complessissimi di prevenzione incendi rispettosi delle normative (NFPA) e compatibili con le norme aggiuntive di FM Global.
Cosi, mentre la pelle esterna costruisce un guscio solido e scuro ma leggero e sostenibile, il mondo interno è una vera macchina del nostro tempo, capace di articolare processi di movimentazione, catalogazione, selezione e schedatura in pochissimi secondi.
Cosa impara la ricerca architettonica da un progetto con queste caratteristiche? In primis, ad essere capace di inserirsi in contesti ambientali non attraverso la mimesi, atteggiamento spesso banale e poco sincero in relazione al grado di impatto che ogni costruzione, piccola o grande, genera con sé; ma attraverso la consapevolezza del proprio essere, delle proprie dimensioni e delle proprie masse su cui solo si deve lavorare per entrare in un dialogo con l’ambiente antico come l’uomo. E il cui grado di trasformazione può esser generativo non di impatto, ma di arricchimento.
La ricerca impara ad essere leggera e tecnologica, pur in una funzione banale come la costruzione di un guscio per stoccare la merce. Leggera e sostenibile al massimo, per riportare e ricreare in sito quelle risorse che il sito stesso consuma. E così il progetto di Trecate non solo non spreca una goccia d’acqua, recuperandola, conservandola, riportandola in falda, ma produce tanta energia quanta ne consuma e riporta 80.000 mq di aree libere a bosco, quel bosco pre-romano che raccontava la pianura che ora vediamo libera ed agricola. Questo scambio continuo con l’ambiente permette al progetto di essere realmente sostenibile, appoggiato su un suolo che non contamina e integrato in un paesaggio con il quale dialoga, ogni giorno.